Con il post di oggi apriamo una nuova rubrica dedicata al dialetto materano. Non pretendo di insegnare qualcosa: non sono un glottologo né un linguista, ma soprattutto appartengo a una generazione che non ha mai parlato veramente u’ matarrà-s, quanto piuttosto una sorta di slang imbastardito da italiano, barese, altamurano, montese ecc. Non lo si parlava neanche a casa mia, anche perché mio padre è miglionichese e mia madre (che neanche saprebbe parlarlo) materana. L’ho ascoltato, però, dalle bocche dei miei nonni materni, in particolare nelle storie di Don Francìsch Valènd Valènd, Mest Ciccill e u’ Diov’l e tantissime altre che mio nonno, Angelo “Zannò-n” Paolicelli, mi raccontava spesso, rigorosamente in dialetto. Probabilmente non capivo tutto, ma per qualche motivo il suono di certe parole, pure a volte così duro, aveva su di me un effetto quasi ipnotico ed aumentava, per di più, la dimensione fantastica dei racconti. Crescendo ho poi avuto la fortuna di incontrare, come molti ragazzi materani, il mitico maestro Ricciardi, instancabile fautore della causa del dialetto che, fino ai primi anni ’90, conduceva un programma di divulgazione sul canale locale “TBM”, in collaborazione con varie scuole elementari. In realtà, per me il primo impatto non fu proprio dei migliori: quando venne nella classe della maestra Vincenza, a San Pardo, ci sottopose tutti a un esame preliminare. Si trattava di ripetere la frase “a menzadì m’ì mangé n’ bell piòtt d’ maccarì-n e c’m d’ rè-p”. Un gioco da ragazzi per molti dei miei compagni, i cui genitori erano nati nei Sassi e che conoscevano bene il dialetto. Non ricordo cosa farfugliai quando venne il mio turno ma più tardi, nello studio di TBM, mentre anche i più ciuccioni recitavano da protagonisti, io spostavo le sedie o facevo la comparsa muta. Da allora ho sempre cercato di imparare qualcosa di questa lingua ricchissima, soprattutto grazie ai lavori dell’inesauribile, mitico, Iong’l Sòrr (Angelo Sarra), che qui ringrazio, la cui voce potete udire nel recitare i geroglifici qui sotto.
1) S’rd’ll’n
Attenzione: se ve ne propongono uno e chiedete di comprare una vocale, potreste riceverne un altro in omaggio. Si tratta del cosiddetto “manrovescio”, che a Matera è spesso proposto in abbinamento a u’ ricchiòn (comunemente detto sckoff). Insieme formano il comodo pacchetto detto vè i vvì-n (va e viene – la mano, ma anche il sentimento, se la prima fa il suo dovere). Per ottenere la massima soddisfazione, paragonabile al cazzotto tra collo e clavicola che solo Bud Spencer sa dare nel modo giusto, la frase “mo t’ì ddè n’ s’rd’ll’n” va pronunciata mimando il gesto, con la mano che prende la rincorsa dalla guancia opposta.
2) Giargianì-s
Il termine indica coloro che parlano un linguaggio incomprensibile e, per estensione, il linguaggio stesso. Tra i tanti commercianti forestieri che passavano da queste parti, ve n’erano diversi provenienti dall'”esotica” Viggiano: viggianese, trasformato in giargianì-s, divenne col tempo sinonimo di straniero. In Basilicata, infatti, le differenze tra i dialetti erano (e sono) incredibilmente profonde tra paesi anche molto vicini, soprattutto alle orecchie di chi parlava quasi esclusivamente il proprio dialetto. Aggiungiamoci la consueta diffidenza verso gli “stranieri”, ed ecco che il termine assume una seconda valenza: u‘ giargianì-s parla strano per fregarti! Ve lo immaginate “Pacco, doppio pacco e contropaccotto” ambientato a Viggiano? Io no.
3) B’ss’né-s
Da non confondere con l’italo-americano bisiness di Lucky Luciano & co. Mentre a Napoli, e poi nel resto d’Italia, gli africani erano e sono identificati con i “marocchini” o, più specificatamente, con i venditori ambulanti (i vu cumprà), a Matera l’immaginario collettivo è rimasto un po’ più indietro, tipo alla guerra d’Africa di fine ‘800. Da noi gli africani erano infatti identificati con gli abitanti dell’Abissinia, i temibili ed appariscenti guerrieri etiopi (come quello nella foto in alto) che tanto ci hanno fatto penare e che devono aver lasciato un segno profondo nei ricordi dei materani reduci di quelle battaglie.
4) Appapagnòrs
A pranzo vi siete sbranati pasta al forno, arrosto, insalata, frutta, frutta secca e dolce, il tutto innaffiato da almeno un quartino di vino? Evègghj (hai voglia) a bere caffè! Appena vi poggiate sul divano, la testa inizia a ciondolare e gli occhi a chiudersi: in pochi secondi vi sarete appapagnét. A me succedeva inevitabilmente all’Università durante le lezioni che iniziavano alle 14:30: luce bassa, parte il power point, alla seconda slide mi svegliavo giusto in tempo per fermare la testa che precipitava verso il banco. Questa bellissima parola deriva dall’uso meno bello di dare agli infanti, per farli addormentare tranquilli, la papògn, un sonnifero molto leggero derivato dal papavero.
5) Uauattìdd
Sembra un vecchio successo di Wil Smith, ma a Matera si chiamava così la scodella profonda per preparare e mangiare la ciallèdd (cialledda, piatto povero a base di pane vecchio bagnato condito con sale, olio, pomodoro, cipolla e altro). Gli utensili in terracotta sono stati tra gli oggetti più importanti nella vita quotidiana degli esseri umani per migliaia di anni, fino al dirompente arrivo della plastica. Naturalmente, dovendo assolvere a un maggior numero di funzioni (soprattutto legate alla conservazione e al consumo di cibo e bevande, ma non solo), esistevano numerosissime forme ceramiche estremamente specializzate, ognuna delle quali col suo nome: u r’zzìl (la brocca per il vino), la r’zzòl (brocca per l’acqua), u’ chìchm (la bottiglia per mantenere l’acqua fresca); perfino il vasetto per contenere il lievito aveva il suo nome: u’ sasaniddìzz. Già durante le età arcaica e classica, per il solo consumo del vino esistevano (tra le altre): l’anfora, la pelike e lo stamnos per il trasporto, il cratere e il dinos per la mescola, l’olpe, l’oinochoe e la brocca per la mescita, la kylix, lo skyphos, il rython e il kantharos per bere (se divento troppo archeologo, fermatemi con n’ s’rd’ll’n). Sorprendentemente, a Matera il kantharos sembrerebbe essersi pian piano evoluto nel cuòndr, il vaso da notte (attraverso il napoletano càntaro). Mi piace immaginare che tutto sia nato da un tragico errore dovuto ad una solenne ubriacatura da vino.
6) Schicchiandar’j
Mè, nan scì fascenn u’ schicchiònd! (Orsù, non essere antipatico!) Questo vocabolo rasenta la perfezione, assumendo una valenza quasi onomatopeica, quando si riferisce all’arte di rompere l’armonia creatasi durante la (rara) convergenza di opinioni positive in un gruppo di persone. Esempio pratico: quando si sta decidendo del capodanno o della pasquetta e per la prima volta tutta la comitiva o la famiglia sta incredibilmente convergendo verso un’idea più o meno originale (o addirittura sensata!), c’è sempre u’ schicchiandò-n che deve rovinare tutto con un “non m’azzecca”, “30 euro so’ assai” ecc. In questi casi torna molto utile il pacchetto di cui alla voce 1.
7) Z’tidd
Pigghiors u’ z’tidd (o anche spat’lè) significa “prendersi uno spavento”. La parola fu coniata da una donna molto alta che aveva sposato un uomo molto piccolo (z’tidd = piccolo z’t). Quando camminava per la casa, la donna se lo trovava sempre tra i piedi all’improvviso, vedendolo all’ultimo momento e prendendosi così ogni volta uno spavento. (No, scherzo, ma questa volta non sapevo proprio cosa scrivere).
8) Matt’vogghj
E’ una di quelle parole impossibili da decifrare partendo dall’italiano. Indizio: la Bat-caverna (a Matera nota come “grotta dei pipistrelli”) ne è piena. Questi graziosi animaletti fecero pigliare u’ z’tidd (vedi sopra) a Batman la prima volta che vi entrò. Sia il termine inglese che quello materano pare derivino dall’arabo baat.
9) F’cclatìdd
Quando suggerisco ai turisti così fortunati da trovarsi di sabato a Matera di acquistarne una forma da Paoluccio, mi guardano come se parlassi giargianì-s. Del resto a Matera non ci siamo mai presi la briga di coniare un termine italiano per questa squisita forma di pane bianco al seme di finocchio, un tempo consumato a conclusione del digiuno la sera della vigilia dell’Immacolata. Detto anche tortanìdd.
10) Friscklùcchj
Indica una bestiolina furba (tipo una volpe o donnola), oppure un bambino particolarmente vivace, soprattutto quando fa qualche marachella. La amo particolarmente perché è legata ai miei ricordi più belli: è l’appellativo con cui mi chiamava spesso mio nonno. Uè frisck’l!, mi diceva prima di afferrarmi, mettermi sulle ginocchia e farmi saltare cantando a ritmo:
uè momm ca mo vén /
bim bim bò!
uè momm ca mo vén /
bim bim bò!
…
Per approfondire: Angelo Sarra (a cura di), Dialetto di Matera. Dizionario. “Na chedd” di parole in disuso, Matera 2013.
Simpaticissimo!!!
bravo .. è un lavoro che apprezzo moltissimo ..tra l’altro sono un Zzannòne anch’io e il tuo “nonno” è il mio zio Angelo…e nella nostra famiglia si parlava tanto e si “sapeva” tanto di vita contadina e di storie dei tempi (per noi andati) ma che riaffiorano prepotenti per stagliarsi nelle menti moderne. Quelle storie sono una pietra miliare nella nostra civiltà non affatto di trogloditi cavernicoli, ma intrisi di sangue e sudore della vita e civiltà contadina, la cui saggezza è pari se non superiore a quella fatta sui libri scritti da chi non ha vissuto gli avvenimenti di cui parla. complimenti ancora.
Grazie Giovanni, mi fa molto piacere. Sono completamente d’accordo con te, il patrimonio orale è altrettanto importante rispetto a quello scritto ed essendo molto più fragile bisogna impegnarsi ancora di più per salvaguardarlo. D’altro canto, certi insegnamenti di mio nonno, come il rispetto e l’amore per la propria terra e le piante frutto del proprio lavoro, mi sono rimasti impressi nel cuore oltre che nel cervello.
Quont si schicchiont. Ie mogli ca ni mittm a riri statt bun
Troppo forte!
Grazie!
Mi pare un’ottima cosa rispolverare l’antico dialetto materano. I miei figli, che hanno sempre parlato l’italiano da piccoli, ora che sono cresciuti, ogni tanto “azzeccano” un vocabolo materano divertendosi un mondo e dichiarando che, spesso, non esiste nessun altro vocabolo in itliano che possa sostituirlo e rendere l’idea. Applaudo per l’iniziativa. Franco Losignore, materano materano (73).
Giustissimo Franco, il dialetto è una lingua ricchissima e, nell’impararla, si scoprono un sacco di cose divertenti oltre che interessanti sulla storia e sulla nostra cultura. Grazie per i complimenti, continua a seguirci, se vuoi!
Mi sono commosso :*)
🙂
Questo post è fantastico
Grazie mille! 🙂
V’rrozz alla voc
Mai sentita quest’espressione, grazie!
I tuoi articoli sono interessanti e divertenti.
Continua!
Grazie Giuseppe!
Bravo Nicola. Molto interessante. Un lavoro del genere bisognerebbe farlo per tutti i paesi, perché, forse non ce ne rendiamo ancora bene conto, stiamo perdendo questa preziosa conoscenza e uniformando il nostro linguaggio a parole e cadenze che non fanno parte della tradizione di ognuno di noi. Ancora una volta, complimenti!
Franco, ovviamente sono pienamente d’accordo con te! Grazie per i complimenti, spero continuerai a seguirmi!
Bellissimo! …e dire che per partecipare all’ultima edizione del premio Energheia mi scaricai da Internet il dizionario italiano materano…
Grazie Mario! Ti consiglio comunque l’acquisto del volume di Angelo Sarra, per tanti motivi: le note introduttive di un importante studioso come E. Giordano, la spiegazione e l’etimoglia di molti termini e il CD con i file audio che, oltre ad essere molto utile, è una vera chicca!
Dove è possibile acquistarlo???
Ciao Angelo, puoi provare nelle librerie di Matera o, se le copie dovessero essere esaurite, potresti provare tra i rivenditori di libri usati come quello sito in via Lucana, accanto al Cinema Duni. In bocca al lupo!
Interessante articolo e molto divertente. Anche io ho bellissimi ricordi di mia nonna che si faceva delle gran risate quando cercavo di parlare con lei in dialetto. Ho avuto “grosse”difficoltà con sartosc’n, p’prul, amell, chiesj (Chiesa)… 🙂 Eppoi ho collezionato un mini vocabolario di parole legate a cose non più in uso tipo spaticc e spatin. Ce disc Sorr? U canisc? 🙂
U’ canosc, u’ canosc 😉
Bravo Nico!! Molto divertente ma anche ricco di informazioni e di passione…! E per me molto utile;-)!
Grazie! Mi raccomando, studia! Così quando verranno a citofonarti per chiederti “Signò, può scendere Carlè?” Potrai rispondere “sciatavunn mò ppìnd! mò vì ddè n’ s’rd’ll’n!” 😀
Bellissima questa rispolverata di vocaboli che sanno di “buono” di “pulito” e che, alle non più giovanissime, ci tuffa in un passato dolce ma un po’ annebbiato soprattutto per chi come me ha vissuto solo l’infanzia nella nostra bella Matera. Bravo Nicola, con questa tua passione mi hai permesso di rivivere teneri ricordi…..e sì talvolta basta una parola…..
Grazie Imma 🙂
Ciao Nicola,
complimenti per l’iniziativa!
Volevo solo ricordare quanto specificava mio padre a proposito del “s’rd’ll’n”, definendolo come quello schiaffo dato a piena mano sull’orecchio, provocando il particolare fischio causa di temporanea “sordità”… da cui il particolare nome.
Grazie ancora per l’opportunità di approfondimento.
Ciao Nicola,
grazie per il contributo! Anche io ho pensato a questa interpretazione. In questo caso sarebbe in pratica un sinonimo di “ricchiò-n” (schiaffo che ti fa gonfiare l’orecchio). Tuttavia Angelo Sarra ha intervistato diverse persone anziane su ogni vocabolo, per cui penso che la sua versione sia quella più affidabile. Ciò non toglie che possa trattarsi sempre di uno schiaffo dato sull’orecchio, ma di manrovescio! Sicuramente faceva malissimo!! 🙂
Mio padre ha immigrato in Uruguay nel 1949. Purtroppo non c’ é piú. Io sto cercado di imparare alcune parole/frasi del dialetto Materano/Miglionichese. Un bel complemento sarebbe quello di mettere assieme alla parte scritta della parola o frase un piccolo audio con la pronuncia. Ringrazzio a chiunque possa fare questo “lavoretto” per noi che viviamo all’estero e vogliamo in qualche modo mantenere le radici