Negli ultimi giorni sta circolando l’ordinanza dell’amministrazione comunale sulla tradizione popolare del falò di San Giuseppe (in materano fucanà-v), che molti hanno visto come un tentativo di limitarne la pratica. In realtà, giustamente si cerca piuttosto di regolamentarla, per scoraggiare (vi si legge) l’uso di bruciare vecchi mobili verniciati, liberando diossina, altamente dannosa per la salute. Il problema è un altro: l’ordinanza prevede la designazione di “un cittadino maggiorenne quale referente per un singolo Falò, indicando il luogo dell’accensione ed allegando, oltre all’assenso del proprietario dell’area in cui si intende predisporre il Falò, la dichiarazione d’esplicito rispetto dei contenuti della ordinanza” (sic). Secondo me, gli ostacoli dunque sono due: da un lato l’onnipresente burocrazia, dall’altro la probabile difficoltà nel reperire un adulto che si assuma la responsabilità di un contesto che preveda la combinazione, in apparenza pericolosissima, bambini+fuoco: KA-BOOOOOOM. Il mio perciò vuol’essere un appello rivolto ai potenziali adulti responsabili: mamme, papà, non privatene i vostri figli, adottate un falò di San Giuseppe!
Io sono cresciuto in periferia, a Serra Rifusa. Gente tranquilla, che lavorava. La dove c’era l’erba (e ora c’è / una cittàààààà-a-a-a-aaaah) noi ragazzi della “pista rosa” abbiamo innalzato fior di falò nella notte di San Giuseppe. Materiale ne trovavamo in abbondanza tra le pinete e le decine di cantieri che affollavano il quartiere tra gli anni ’80 e ’90. Eravamo molto fieri del nostro falò che, a volte, si iniziava a preparare già da febbraio. La competizione con gli altri ragazzi delle zone limitrofe (leggendari erano i falò di Bottiglione o Serra Venerdì) era sempre molto alta, e le cataste di legna erano preda di veri e propri blitzkrieg al calar della sera. Niente scene da “Il signore delle mosche” (anche se qualche cazzotto è volato), ma bisognava vigilare attentamente per non farsi sottrarre il materiale. Il pericolo maggiore, però, era un altro: durante la lunga faida con i ragazzi di via Gravina, una volta la nostra catasta fu data alle fiamme con largo anticipo. C’erano anche alleanze o taciti accordi, come con i tipi di “sopra a Serra Rifusa” (viale dei Messapi). La sera del 19 marzo, satolli di zeppole, ci riunivamo intorno al fuoco portandoci qualcosa da arrostirci su (o meglio, carbonizzarci, in particolare würstel da mettere nel panino. E alla fine, cosa fare dell’enorme e pericoloso braciere fumante? Niente paura: tutti i maschietti in cerchio a misurare la potenza delle proprie giovani prostate.
In generale, era un bellissimo momento di aggregazione, cui si partecipava insieme agli adulti e persino ai ragazzi più grandi che, nel resto dell’anno, ci sfasciavano le “casette”. Del resto, anche un piccolo fuoco di bivacco, o a volte un semplice caminetto, hanno un incredibile potere aggregante. Intorno al fuoco ci si sente uniti, protetti. Il “focolare domestico” è sinonimo di casa e tranquillità sin dal Paleolitico. Col potere del fuoco abbiamo prima imparato a snidare le bestie feroci e a difenderci da esse, poi a creare le radure e i campi su cui piantare i nostri primi raccolti e far pascolare gli animali. Il fuoco è la nostra vittoria contro le tenebre e la morte: prima di imparare come produrre la fiamma dal nulla, l’abbiamo custodito gelosamente nelle nostre caverne e poi nelle capanne, coscienti del fatto che una fiamma significava la differenza tra la vita e la morte, soprattutto nelle lunghissime ere glaciali. Questa pratica si è così radicata in noi che l’abbiamo perpetuata per migliaia e migliaia di anni: nell’antica Roma, il sacer ignis è stato preservato dalle vergini Vestali fino al 391 d.C., quando l’imperatore Teodosio decretò la fine delle pratiche pagane. Allo stesso modo, ogni casa e ogni città greche avevano il proprio fuoco sacro di Hestìa a simbolo e protezione della comunità, familiare o cittadina. La sposa greca consacrava la sua nuova casa portandovi una parte del focolare della sua famiglia, inaugurandone uno nuovo. Il fuoco degli altari e delle pire funebri inviava agli dei le offerte degli uomini e, in molte culture, anche le loro anime. I fuochi accesi in corrispondenza dei solstizi e degli equinozi (come, appunto, quello di San Giuseppe) o all’inizio dell’anno sono un modo per esorcizzare il passato e inaugurare il futuro con la speranza che possa essere migliore. Ma il fuoco trascende le religioni, con buona pace di Vesta, Hestìa, San Giuseppe, Sant’Antonio, Sant’Andrea e diverse Madonne. Non c’è cosa più terrena, ancestrale, umana di una comunità che si stringe attorno a un fuoco nella notte. È scritto nel nostro DNA, è così che siamo diventati esseri umani: il falò ci rappresenta in quanto tali, il falò siamo noi. #jesuisgiuseppe – anzi: #gesuìgiusè.
Nicola, mi ci rivedo completamente nel tuo raccolto, e mi sa che abbiamo piu’ o meno la stessa eta’, mi par di riconoscere uno o due bambini in quella foto. Io sono cresciuto a Rione Pini e ricordo innumerevoli battaglie a colpi di furti di legna da ardere con i nostri acerrimi nemici di “giu’ alla Milizia” o “sopra La Nera”. Ricordo anche che c’era sempre qualche adulto nei paraggi al momento dell’accensione, nessun genitore e’ cosi’ incosciente da abbandonare i propri figli a tali pratiche, percio’ quest’ordinanza oltre che inutile mi sembra completamente insensata. Sai se la tradizione dei falo’ ancora resiste? Manco da Matera in questo periodo da piu’ di una decina di anni. Ciao.
Ciao Marco, so che nel mio vecchio rione la tradizione continua, e parecchie cataste pronte per essere “appicciate” sono state avvistate in giro! Grazie per il tuo contributo, ti saluto! 🙂