Lo scorso 29 agosto è successo di nuovo: il Bosco di Lucignano, uno dei gioielli del Parco della Murgia Materana, è stato dato alle fiamme. Per spegnere l’incendio sono dovuti intervenire, oltre ai Vigili del Fuoco, alle Guardie del Parco, alla Guardia Forestale e agli irriducibili volontari di Legambiente e Protezione Civile, due canadair. Dopo ore di lavoro il bilancio è ancora una volta drammatico. Ettari di bosco sono andati perduti per sempre. Non è certo la prima volta che accade. Il primo, terribile evento risale al 3 Agosto 1993, quando in due giorni e due notti si persero 200 ettari di bosco. Ciò che si era salvato e quanto andava faticosamente rinascendo fu in seguito brutalmente distrutto da un altro incendio di enorme portata che, il 29 Luglio del 2001, interessò altri 200 ettari tra le contrade di Lucignano, La Bruna e Madonna del Giglio. Dopo circa undici anni, esattamente tre anni prima dell’ultimo evento, il 29 Agosto 2012, con grande fatica si riusciva a domare l’ennesimo incendio, come i primi di natura dolosa, che segnava la morte di altri 65 ettari di bosco.
Immagini dell’incendio del 29 Agosto 2015 (Foto di M. Santantonio)
Agli osservatori contemporanei è difficile immaginare la Murgia ammantata da rigogliose e ombreggianti foreste, ma fino a un paio di secoli fa era questo l’aspetto che avevano. Insieme al Bosco del Comune, quello di Lucignano ha rappresentato, almeno fino al 1993 (vedi foto in alto – da Medagli, Gambetta 2003) l’unica, preziosa testimonianza di ciò. Ubicato al margine orientale del Parco, ai confini con il territorio di Ginosa, si caratterizzava per l’abbondante presenza della Quercus trojana Webb o “fragno”, una specie tanto ampiamente diffusa nei Balcani quanto rara da questa parte dell’Adriatico, di cui il Bosco di Lucignano rappresentava, appunto, la stazione più occidentale. Oltre al fragno, il bosco ospitava numerose altre specie arboree decidue tra cui altre querce (virgiliana, amplifolia, il leccio), l’acero minore, il carpino, l’orniello, il ciliegio canino, il perastro, il terebinto. Abbondante e variegata anche la vegetazione arbustiva e lianosa sempreverde, tra ginepri, caprifogli, lentischi e ginestre. Nel sottobosco, nelle macchie e nelle splendide radure che si facevano largo tra l’intrico dei boschi, risplendevano poi piante e fiori a volte molto rari, perfettamente a loro agio nel particolare microclima di Lucignano, quali la frassinella, la peonia maschio, la scorzonera a foglie di piantaggine, il finocchio acquatico a foglie strette, la cerere a una resta, l’ofride di Matera, il colchico di Bivona, il fiordaliso di Trionfetti, il vilucchio a cinque petali e molti altri.
Insomma, si trattava di una parte fondamentale del nostro patrimonio che, prima ancora di essere valorizzata, andava tutelata (come del resto stabilisce la Costituzione Italiana). E dire che proprio grazie alla protezione garantitagli dall’appartenenza all’intera comunità era passato indenne attraverso secoli di sfruttamento del territorio. Dalle nostre parti, «l‘idra divoratrice del Sistema Feudale», abolito il 2 Agosto 1806, menò gli ultimi, terribili colpi di coda nel periodo post risorgimentale, quando i querceti murgiani scomparvero quasi del tutto. Anche il nostro Bosco di Lucignano stava forse per subire la stessa sorte quando proprio negli anni ’60 dell’800 «i signori Venusio e Cattaneo Filomarino» tentarono di appropriarsene. Per fortuna furono fermati dal Comune di Matera, rappresentato dall’abile avvocato Girolamo Guida.
A salvarlo per tutti questi secoli, dunque, è stato forse il ricordo ancestrale, in qualche modo profondamente inciso nella memoria collettiva della nostra comunità, della natura “sacrale” del luogo. Sono probabilmente in molti ad aver notato come l’etimologia del toponimo Lucignano possa riferirsi al latino lucus, il “bosco sacro” dei romani (alsos per i greci). Nello specifico, il termine indicava la radura o spazio sacro inaugurato all’interno del bosco (nemus), dove giunge la luce (lux). Già a partire dalla tarda repubblica, tuttavia, il termine indicava, per estensione, l’intero santuario. La dicotomia lucus/nemus rappresenta in qualche modo la base ancestrale da cui è nato il concetto stesso di templum come spazio sacro inaugurato nella religione romana, tanto da essere riprodotto anche nelle forme architettoniche monumentali d’età repubblicana (esemplare in tal senso il caso di Gabii). Tra i vari luci celeberrimi sono, tra gli altri, il Lucus Feroniae a Fiano Romano e l’antichissimo santuario (le cui prime fasi risalirebbero all’Età del Bronzo) di Diana Nemorensis ad Ariccia.
Quest’ultimo, ubicato presso il lago di Nemi, è stato forse il più importante del mondo latino e poi romano, pur essendo stato fortemente influenzato, sin dalla suo fase arcaica, dal culto greco dell’Artemide Taurica e Orthia. Diana vi era qui venerata come trivia o triplex, in una triplice figura divina in cui rientravano, oltre alla stessa Diana Cacciatrice, le dee Ecate e Lucina. In generale, comunque, le titolari dei santuari di questo tipo sono divinità femminili, per loro natura poste a tutela dei passaggi (in senso figurato o meno) e del margine tra il mondo “civilizzato” dell’uomo e quello naturale, da cui egli proviene e a cui il suo spirito spesso anela a tornare.
In tale prospettiva risulta indicativo il rinvenimento, da parte di Domenico Ridola, di una stipe votiva nel territorio del Bosco di Lucignano. Purtroppo la documentazione relativa alla scoperta è quasi nulla (cosa rara per Ridola, di solito molto preciso) e scarsi sono i dati editi. Da quanto pubblicato, tuttavia, gli ex voto sembrerebbero riferirsi ad una cronologia tra IV e III sec. a.C. e ad una tipologia ben attestata nei santuari coevi noti nel territorio, in primis quello di Timmari. Emblematica soprattutto la coroplastica di derivazione metapontina e tarantina: la presenza di oscilla, protomi, statuette sedute e stanti, busti sembrerebbe rimandare ad un ambito cultuale attinente all’universo femminile e alla fertilità. Quasi impossibile risalire al nome della divinità qui venerata. Rarissime sono, in generale, le iscrizioni nei santuari indigeni (da questo punto di vista il santuario lucano di Rossano di Vaglio, dedicato a Mefite, rappresenta una felice eccezione), nessuna delle quali mi risulta provenire dall’area Bradanica. Riferendoci al pantheon greco, possiamo forse immaginare una dea che sintetizzi gli aspetti di Afrodite, Demetra/Persefone e Artemide, sebbene proprio la divinità etrusco-laziale Lucina, dea delle nascite venerata a Nemi, potrebbe avere qui una suggestiva corrispondenza toponomastica (il suffisso –anus indica l’attinenza o la proprietà, per cui quello di Lucignano potrebbe essere diventato, magari dopo l’occupazione romana, il “Bosco di Lucina”). Del resto, più o meno nello stesso periodo anche nel grande santuario di Nemi gli aspetti cultuali legati alla sfera della fertilità e delle nascite assumevano un ruolo centrale.
In un territorio che è rimasto legato in maniera indissolubile all’agricoltura e alla pastorizia per migliaia di anni (l’industrializzazione da queste parti è arrivata solo in tempi relativamente recenti) la fertilità (umana, vegetale e animale) costituiva, com’è facile intuire, il bisogno primario delle comunità che lo occupavano. Non stupirebbe, dunque, se un contesto sacralmente legato, poiché propizio, alla fertilità sia stato così a lungo custodito da quelle stesse comunità. È dunque a causa della perdita del contatto fisico, vitale con il territorio se oggi non lo proteggiamo più? Eppure proprio in questi tempi il nostro benessere, la nostra felicità, la nostra stessa vita dipendono sempre maggiormente dall’unicità del nostro territorio, e la sua scomparsa ucciderebbe anche noi.
Verrebbe quasi voglia di abbracciare gli aspetti più arcaici e cruenti del culto di Diana Nemorensis. Il sacerdote a capo del santuario, noto come rex nemorensis, veniva sostituito secondo un rituale antichissimo, vestigia dei sacrifici umani banditi dal mitico re Numa Pompilio. Il candidato alla successione, infatti, dopo aver reciso un ramo dell’albero sacro alla dea (forse proprio un quercus ilex, ossia un leccio) avrebbe dovuto affrontare e uccidere il suo predecessore. Il sacerdote si faceva dunque al contempo officiante e vittima del sacrificio, allo scopo di proteggere il lucus e quindi la comunità che da esso dipendeva, fungendo da capro espiatorio.
L’ing. Pellecchia stia pure tranquillo: non voglio certo proporre questo come metodo per la scelta del nuovo presidente dell’Ente Parco (per quanto potrebbe costituire un evento in grado di attrarre da solo migliaia di visitatori)! Tuttavia non mi dispiacerebbe troppo vedere incaprettati su una roccia quei bastardi che hanno dato fuoco, per l’ennesima volta, al nostro bosco sacro.
Ma non temete: gg’stìz-j l’ho bb’n!
Per approfondire:
Sugli aspetti naturalistici: P. Medaglia, G. Gambetta, Guida alla flora del Parco, Matera 2003.
Sulle vicende ottocentesche: G. Guida, Relazione per la verifica delle usurpazioni volute commesse da’ signori Venusio e Cattaneo Filomarino nel demanio, Napoli 1868.
Sul lucus in generale: F. Coarelli, I santuari del Lazio in età repubblicana, Roma 1987; O. De Cazanove, J. Scheid (eds.), Les bois sacrés (Actes du Colloque International organisé par le Centre J. Bérard, Naples 1989), Napoli 1993.
Sul santuario e il culto di Diana Nemorensis: AA.VV., Il santuario di Diana a Nemi. Le terrazze e il ninfeo. Scavi 1989-2009, Roma 2014.
Sulla stipe di Lucignano: Soprintendenza Archeologica della Basilicata, Il Museo Nazionale Ridola di Matera, Matera 1976.