Oggi mi voglio cimentare con la cucina tradizionale materana. Per l’occasione ho chiesto aiuto ad una materana D.O.C.: mia madre, “zannò-n” di nascita. Lei mi dice che, nel periodo di carnevale, a Matera si usava preparare le ricchjtèdd e i calzì-n con la r’chett. Personalmente non sono d’accordo. Per me andrebbero preparati molto più spesso. Come per le ricchjtèdd con le c’m d’ rè-p (cime di rape), anche in questo caso dobbiamo forse guardare alla Puglia per trovarne l’origine, ed in particolare a Taranto, dove però i calzoni sono solitamente molto più grandi. In ogni caso, cucinati con un ragù a base di carne di maiale, rappresentano uno dei piatti più autentici della tradizione materana. Una volta il ragù di carnevale doveva essere veramente pesante: in molte ricette si usava aggiungere anche il lardo. Si trattava, infatti, dell’ultima possibilità di farsi una bella mangiata con la carne del maiale ucciso quell’inverno, prima dei digiuni della Quaresima. Che la ricetta originaria fosse o meno materana, qui, soprattutto un tempo, doveva raggiungere la perfezione. Matera si trova infatti a cavallo tra due aree che, almeno dall’età romana, hanno a lungo perseguito le proprie vocazioni eno-gastronomiche con risultati eccellenti: la Lucania interna nella produzione di carne di porco, il materano e la Puglia in quella del grano.
Ecco cosa vi occorre (per 4 persone):
- 400 gr. di farina: mischiate semola rimacinata di grano duro e semola NON rimacinata di grano duro, a vostro piacere;
- 5-600 gr. di ricotta di pecora;
- 1 rosso d’uovo;
- 1-1,5 cucchiai di zucchero;
- cannella in polvere a piacere;
- un pizzico di sale.
Armatevi inoltre di: na rasò-l (una spatola), n’ ch’rt’dd (un coltello) non seghettato, n’ laianè-r (un mattarello liscio in legno, una volta ricavato da un manico di scopa) e ovviamente avrete bisogno di u’ tavlì-r (una tavola lignea piallata).
Per prima cosa occorre realizzare l’impasto. La farina va innanzitutto passata al setaccio sul piano di lavoro, quindi accumulata fino a creare la fànd (fonte), con quella bellissima forma che a me ha sempre ricordato un vulcano. Mia madre aggiunge un pizzico di sale al composto.
A questo punto, si versa l’acqua (tiepida) e si inizia ad impastare. Per evitare di fare troppe foto, ho deciso di realizzare dei video per ogni tappa. A causa dei numerosi rumori molesti ho deciso di eliminare del tutto l’audio.
Veniamo al primo: l’impasto. Mi raccomando, la pasta va manipolata con decisione per ottenere la consistenza giusta.
Una volta ottenuto l’impasto, dividiamolo in due parti. Quello destinato ai calzoni lo mettiamo da parte in uno strofinaccio. Quello per le orecchiette, invece, lo divideremo in piccoli tronconi che verranno stesi per ricavare le orecchiette stesse, come potete vedere nel secondo video qui sotto.
A questo punto passiamo ai calzoni. Prepariamo la sfoglia stendendo il secondo pezzo dell’impasto con u’ laianè-r, come mostrato nel terzo video:
N.B.: se non siete pratici, potete usare una macchinetta automatica per la sfoglia.
Purtroppo non ho potuto fare il video dell’ultima parte del lavoro, ma è molto semplice e tutti i passaggi risultano chiari dalle immagini.
Prepariamo la ricotta mischiando gli ingredienti citati sopra; mettiamo una noce del composto ogni 5 cm circa (a seconda della grandezza desiderata per i calzoni); risvoltiamo un lembo di sfoglia sui cumuletti di ricotta e, con un bicchiere dal bordo sottile e dal diametro desiderato, ricaviamo i calzoni, posandoli man mano su un vassoio e ricordandoci, alla fine, di forarli con uno stuzzicadenti per evitare che, gonfiandosi, si rompano durante la cottura.
Quando calate la pasta, ricordatevi che i calzoni devono cuocere pochi minuti. Tenetelo presente se preferite le orecchiette ben cotte!
Non vi proporrò, dunque, la ricetta del ragù: ognuno lo fa come vuole, e mia madre lo fa buono anche se “leggero”. Se volete seguire la tradizione, abbondate col maiale: oltre alla salsiccia normale, metteteci anche la “pezzente” (quella più grassa) e non dimenticatevi della pancetta! Ma soprattutto, appena la cuoca si distrae, non dimenticate di fare la cosa più importante: sponzate il pane nel sugo!!
Comunque lo facciate, la cosa più bella (e più importante) del ragù è il suono che produce mentre cuoce, quel borbottio che, con una bellissima espressione onomatopeica mutuata dal napoletano si definisce p’ppiè (letteralmente, fumare la pipa), e che si verifica solo quando il ragù è fatto come Dio comanda. Quel suono in me desta il ricordo delle domeniche mattina a casa di nonna Maria, miglionico-americana, che pur avendo conosciuto la fame (o forse per quello) non lesinava certo sul cibo, soprattutto nei pranzi di famiglia. Va bene non esagerare con i grassi, la cottura leggera eccetera, ma il ragù è il ragù e, come dicono i napoletani, o rraù adda pippià. Meglio di tutti l’ha spiegato il grande Edoardo De Filippo:
m’ ‘o ffaceva sulo mammà.
A che m’aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun sogno difficultuso;
ma luvàmell”a miezo st’uso.
Sì, va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avèssem’ appiccecà?
Tu che dice? Chest’è rraù?
E io m’a ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià…
M’ ‘a faje dicere na parola?
Chesta è carne c’ ‘a pummarola.
I brev Ncal!!! Ma maj foll t’j c si capesc!
Nan craid!